Un paese di santi, poeti, navigatori e laureati con lode

di Alberto Grillo

Vorrei dire la mia, con qualche giorno di ritardo, sull’episodio riguardante il ministro Poletti e la sua frase “meglio uscire dall’università con 97 a 21 anni che con 110 e lode a 28 anni”. Linko quest’articolo del corriere perché riporta anche i dati dell’ultimo rapporto di Almalaurea sui laureati italiani. La mia opinione in breve è che se di questo tragicomico aspetto dell’università italiana se n’è accorto anche un ministro della repubblica, forse c’è speranza che qualcosa cambi (per quanto ritengo anche io che nel suo caso sarebbe stato più elegante fare direttamente riferimento alla sua situazione di non laureato senza aspettare la presa in giro collettiva).

Nel 2014 l’età media dei laureati italiani di laurea specialistica è stata di 27,7 anni (dovrebbe essere di 24 per chi finisce “in tempo”) e il voto medio di laurea di 107,5 su 110. Questi dati sono semplicemente IMBARAZZANTI. Chi tra i miei dieci lettori ha rudimenti di statistica può provare a immaginare, a partire da queste medie, quali siano le rispettive mediane e provare ancora più imbarazzo. Michael Spence ha ricevuto il premio nobel in Economia per aver evidenziato, ormai più di 40 anni fa, quanto sia importante il ruolo di segnalazione che l’istruzione svolge per il mercato del lavoro. E’ evidente che questo meccanismo di segnalazione in Italia non passa al momento attraverso il voto di laurea, ma attraverso altri criteri (quali facoltà o quali università e il tempo impiegato, da qui le parole del ministro). Altrettanto evidente è che ciò sia meno efficiente.

Aggiungo un paio di riflessioni. La prima riguarda i rimedi: ce ne sono due che possono essere messi in pratica facilmente e senza costi. Il primo è ridurre l’importanza della tesi di laurea nel curriculum, quindi il tempo ad essa dedicato e il suo peso sul voto di laurea. Tesi di 200-300 pagine scritte in media abbastanza male non servono a nulla e non se le legge nessuno, non la gran parte dei relatori (che barattano il tempo sottratto alla lettura con un bel punteggio), non chi ci vuole offrire un lavoro, non i nostri nonni che preferiscono uscire a guardare i cantieri. Un’idea rivoluzionaria? No. Il secondo è ridurre drasticamente il numero di appelli per ciascun esame. In molti altri paesi gli appelli sono uno, due o massimo tre. In Italia arrivano a dieci o oltre. In altri paesi gli esami si fanno, in Italia si provano. Non bisogna essere dei fini psicologi per capire che andare a provare gli esami fa perdere un sacco di tempo. In altri paesi la sessione di esami finisce a maggio e gli studenti possono fare uno-due mesi di stage all’anno senza rinunciare alle vacanze. In Italia il 30 luglio ci sono ancora esami e ci sembra fuori dal mondo che le imprese chiedano ai neolaureati sia di essere giovani sia di avere un minimo di esperienza lavorativa. Un’idea rivoluzionaria? Non credo.

La seconda riflessione riguarda la risposta dell’Unione degli Universitari (riportata nell’articolo del corriere), i quali dicono che l’età dei neolaureati italiani è perfettamente in linea con la media europea. Questo, secondo una mia rapida ricerca, sembra essere vero (almeno per quanto riguarda la mediana). Nel commentare questo dato però, bisogna tener conto di quanti sono i laureati italiani rispetto ai laureati negli altri principali paesi europei: molti molti meno. Se un paese tenta di aumentare il numero di laureati, è naturale aspettarsi che in caso di successo i nuovi laureati abbiano in media più difficoltà a laurearsi (e quindi ci mettano di più): sono studenti marginali, che partono da condizioni sociali in media più svantaggiose. Sottolineare che l’età dei neolaureati italiani è in media con gli altri paesi europei quando questi sono in numero molto inferiore è pertanto fuorviante: ci aspetteremmo che fossero più giovani. Vi faccio un esempio analogo: sapete quale paese tra Italia e Germania è più produttivo? Risposta sbagliata, è l’Italia! Tutto dipende dal fatto che il numero di occupati in Italia è di gran lunga inferiore a quelli in Germania e quando un qualunque paese (la Germania) attua politiche per aumentare l’occupazione il tasso medio di produttività cala, perché i nuovi occupati sono meno produttivi. Per tornare ai neolaureati, ovviamente lo stesso discorso vale per quanto riguarda il voto di laurea: visto l’esiguo numero di laureati in Italia, è normale aspettarsi un voto medio di laurea superiore agli altri paesi (107,5 su 110 rimane IMBARAZZANTE).

Vivo all’estero da tre anni e sto imparando a rivalutare continuamente, alle volte in meglio, alle volte in peggio, le peculiarità del nostro paese. La media dei voti di laurea appartiene purtroppo alla categoria delle rivalutazioni in peggio e ci copre di ridicolo. Speriamo che le cose cambino in fretta.

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I numeri dell’Expo

Alberto Grillo

Ma alla fine, al di là del dato assoluto di 20-21 milioni, il numero di visitatori dell’expo è alto o basso in confronto alle edizioni precedenti? Domanda affrontata subito da Il fatto quotidiano, che quando si tratta di combinare polemica, disfattismo e disinformazione, non si fa battere da nessuno: al netto degli addetti, dato uguale a Hannover 2000, ricordato come il “flop del millennio” (del millennio??? ricordato da chi poi???); per fare peggio bisogna risalire a Seattle 62 (di che millennio a questo punto?). Con un pizzico di sospetto, ho fatto un piccolo esercizio di fact-checking, che mi è costato l’enorme fatica di digitare “wikipedia expo” su google. Dalla tabella che compare emergono le seguenti considerazioni:
1- L’expo nella forma attuale di una grande expo ogni 5 anni, intervallata da un piccola expo, risale appunto al 2000 e offre quindi un campione di 4 grandi expo. A parte i 73 milioni di Shanghai 2010, Aichi 2005 ha registrato 22 milioni di visitatori con un mese in più a disposizione dell’edizione italiana e Hannover 2000 18 milioni con un mese in meno. Insomma, 21 milioni sono nella norma, non un successo né un flop.
2- Prima del 2000 le cose sono più complicate, non si capisce quali siano le grandi expo e quali le piccole, alcune non sono neanche denominate expo e non rimane che affidarsi alla durata delle edizioni. E’ facile osservare che vi sono stati casi di particolare successo (Montreal 67, Osaka 70, Siviglia 92), ben al di sopra dei numeri di Milano. Allo stesso tempo vi sono state, anche dopo il 62, edizioni con durata simile e molte meno presenze: in particolare, anche non considerando quelle non denominate expo (tra le quali figura anche Seattle 62) rimane il caso di Spokane “Expo 74”, che con un mese in più a disposizione ha raccolto 4 milioni di visitatori. E comunque emerge di nuovo che 20 milioni di visitatori sono un dato assolutamente in linea con molte edizioni precedenti: Brisbane 88, Vancouver 86, Tsukuba 85, etc.
Quindi: in rapporto ai numeri di visitatori, Expo 2015 si posiziona nella media, sicuramente non un successone ma altrettanto difficile definirlo un flop. I record del millennio poi lasciamoli nel catalogo di miti e leggende della redazione de Il fatto quotidiano.

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Io non sono zemaniano

Gianmario Pisanu

Scrivo questo coccodrillo in onore del Cagliari Calcio con una buona giornata d’anticipo sulla dipartita in serie B. La squadra, di cui il sottoscritto è tifoso (il cognome non lascia scampo), si appresta a un mesto ritorno in cadetteria dopo anni di tranquille salvezze e piccoli, deliziosi orgasmi, linfa vitale di qualsiasi provinciale. Il più bello: Cagliari – Juventus 1-1, il nano protosardo per antonomasia, Zola, svetta di testa (!) e fa secco Buffon. Moggi prostrato in tribuna (confermo, confermo).

Ma bando alla cronaca, dato che, per dirla con Frank Zappa, parlare di calcio è come ballare d’architettura (lui si riferiva alla musica, ma morti i vari Brera, Ameri, Ciotti, le gazzette sportive sono avvincenti quanto il prontuario di un medicinale).

Mi concenterò dunque, galileiano per eccesso, sul come, non sul cosa, ché per quello basta la tivù.

Come è potuto accadere che un pubblico così diffidente e apatico come quello cagliaritano abbia aderito in massa (me incluso) a un progetto tanto scombiccherato? Come è potuto accadere che un Presidente che negli ultimi 10 anni ha mantenuto una squadra in serie A in una terra economicamente depressa quale la Sardegna sia stato accompagnato all’uscio alla stregua di un Ceausescu?

Come si dà che un collezionista di esoneri e retrocessioni, Zdenek Zeman, venga dai più chiamato “Maestro” manco fosse la reincarnazione del Guru Sai Baba?

Al di là delle specificità del caso e delle attenuanti, che pure ci sono (Massimo Cellino, il precedente Presidente, era un tantino spregiudicato e paradossale, non proprio un simpaticone; la squadra è stata proficuamente smantellata e rimpinzata di ceppe dal successore, non c’è che dire), resta la sgradevole sensazione di un’impostura ideologica di fondo ben condensata dal fenomeno Zeman, tale da richiedere una fenomenologia alla maniera di Eco. Con delle differenze di fondo: al posto del Mike nazionale, il Maestro Zeman; invece dell’italietta neoscolarizzata e fiduciosa (quella del Lascia o raddoppia e del frigorifero a rate), l’Italia imbolsita, precaria, esodata, sfiduciata, o meglio i suoi cantori radical chic: insomma, l’Italia migliore.

Zdenek Zeman non è particolarmente vincente: se il curriculum canta chiaro, ci sono all’attivo 11 (undici!) esoneri (Roma due volte, Lazio,             Fenerbahce, Napoli, Salernitana, Avellino, Brescia, Lecce, Stella Rossa, Cagliari) costellati da un’esperienza esaltante (Foggia dei miracoli) e un paio di ottime annate (Lecce 2004/2005, Pescara 2011/2012). L’espressione “perdente di successo” è stata coniata apposta per lui da giornalisti assai compassionevoli.

Il suo gioco, da alcuni considerato spettacolare, ha funzionato effettivamente nelle tre esperienze di successo sopraccitate (Foggia, Lecce 2004/2005, Pescara 2011/2012). Negli altri casi (grosso modo vent’anni di carriera, tra cui esperienze in squadre di blasone come Roma e Lazio) si è rivelato un Circo Barnum dell’arte pedatoria, che stava al calcio come il wrestling alla boxe.

Ciò nonostante, queste piccole chiazze d’unto sullo scintillante palmarés vengono ampiamente compensate dall’inattaccabile integrità e dalle denunce anti-doping, vera coccarda che il boemo tira fuori generalmente dopo qualche risultato tennistico a sfavore.

Venditti gli dedica una canzone, La coscienza di Zeman (sic!), Fazio lo vezzeggia nei suoi salotti tivù, le claques si sperticano: nell’Italia migliore, l’Onestà è Bello, come la Donna, il Merito è Brutto; nell’Italia migliore, il cameratismo insopportabile degli Eletti ha sostituito al concetto di colpa, tipicamente luterano, quello di crimine, così mondano.

Lo speculare di Zeman, in questo pasticciaccio brutto che schiaffa il Cagliari in serie B, è l’ex Presidente Cellino. Impresario del grano, con poca grana tiene il Cagliari in A per quindici anni complessivi (unico neo un intermezzo in serie B all’inizio degli anni 2000): fiore all’occhiello una semifinale di Coppa Uefa (1993). La figura non è però propriamente ammiccante: l’uomo è arrogantello, l’accento fa tanto sardo pellita, una volta si è addirittura candidato alle regionali con Berlusconi (2004). Insomma, un reietto che neanche il Pinguino del Batman di Tim Burton. La disgrazia comincia a materializzarsi quando si mette in testa di smantellare lo stadio Sant’Elia, un obbrobrio pericolante inagibile per tre quarti, e di costruirne sulle ceneri uno nuovo di zecca. Pare abbia “oliato” il sistema, incurante dei vincoli ambientali sul volo degli impagabili fenicotteri rosa dello stagno di Molentargius. Beninteso, non di tangenti si parlò: pressioni indebite, toni da trivio zelantemente riportati dai giornali e… si, be’, insomma, non si fa. Risultato: tre mesi di gogna in gattabuia, lo Stadio Sant’Elia tuttora veicolo in mondovisione di un’immagine della Sardegna da repubblica delle banane e i fenicotteri rosa liberi di scagazzare impunemente sui prati di Is Arenas, per la gioia dell’Italia migliore.

Il resto è storia recente. Il nuovo presidente, il milanese Tommaso Giulini, vende i pezzi migliori, faticosamente rastrellati da Cellino, e incassa; dà in pasto ai tifosi il Maestro, nuova versione del panem et circenses; retrocede, ma con grande dignità e plauso dei media.

Fanculo all’Italia migliore, rivoglio il Cagliari (e l’Italia) in serie A.

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Vogliamo finalmente dire che Tsipras è un danno per la Grecia?

Alessio Mazzucco

Schermata 2015-03-21 alle 16.25.40Prendo atto che Alexis Tsipras ha accentrato su di sé il dibattito europeo ed è un bene: finalmente si parla di Europa e rapporti tra stati. È un abile comunicatore, un po’ meno abile politico e uno statista decisamente scadente. Ma ci sono piaciute le folkloristiche rievocazioni della Resistenza (O bella ciao!) in una rinnovata lotta all’egemonia teutonica sul continente. Che poi la narrazione tsipriana ripresenti la Germania come il nemico da sconfiggere, o lo sconfitto a cui chiedere le riparazioni di guerra, poco importa: l’unico messaggio che deve passare è nascondere ai greci l’amara verità, che il mondo è cambiato ed economie non abbastanza strutturate non possono permettersi di competere.

È colpa dell’euro. Ah sì, la nuova narrativa anti-europea si sviluppa in chiave monetaria. Nel tifo politico offuscato d’ignoranza, il poco spazio rimasto alle parole si esprime nella dicotomia anti- o pro-, nei confronti della moneta o di qualunque altra materia degna d’interesse (Russia e Ucraina, Usa e TTIP, Euro ed Europa, Renzi e Governo e via dicendo). Abbandonando quindi i lidi sicuri del muro-contro-muro e delle etichettature, dedichiamoci per un momento a un ragionamento puramente logico. L’Euro senza Europa è stato un errore fondamentale. Colpa dei burocrati? Sì, e del rifiuto dei popoli e dei Governi di abbandonare le proprie prerogative e la propria sovranità statale (e.g. 2005, referendum francese). Da quando la società umana esiste, ogni moneta ha avuto bisogno di uno stato (inteso in senso di imperio) che ne garantisse forma, valore e proporzioni. La divisione tra politica fiscale (lo Stato propriamente detto) e la politica monetaria deriva dalla creazione della prima banca centrale (Inghilterra, fine ‘500), ma la sostanza non è cambiata: una moneta per 19 politiche fiscali diverse genera distorsioni. Le distorsioni generano afflussi e deflussi di ricchezze molto forti (Atene si ricorda molto bene gli afflussi dopo l’entrata nell’euro, anche se tende a dimenticarli per opportunità politica), e gli afflussi e deflussi dipendono dalla struttura economica di un Paese. In parole povere: un Paese che crea o produce qualcosa di cui altri avranno necessità e bisogno attira ricchezze, così come un Paese che genera servizi ad alto valore aggiunto si farà pagare il detto valore aggiunto tramite afflusso di ricchezze. Al contrario, un Paese che non produce e non attira ricchezze non sarà mai ricco e sarà condannato al declino. È sempre amaro il calice della verità, ma questa è la vita.

La Grecia ha letteralmente fatto carte false per entrare nella moneta unica, eppure sembra che nel torto siano gli investitori per aver creduto e investito nel Paese generando un afflusso che ora (magia!) sta defluendo altrove. Per l’Italia il caso è simile (o, per lo meno, potrebbe diventare un brutto ricordo del passato se il Governo riuscisse a incassare qualche altra riforma strutturale): un Paese non attrattivo è un paese dal quale le ricchezze defluiscono, siano esse capitale umano (emigrazione), capitale fisico (delocalizzazione) o capitale immateriale (investimenti). Qualcuno potrà dirmi: ehi! Ma il problema che denuncia Tsipras è l’accanimento dei creditori per la restituzione dei debiti contratti, trasformati da debito privato a debito pubblico! Ovvero: la speculazione di altri viene ripagata ora dal popolo. Vero e falso. Se il debito pubblico è contratto per salvare un sistema bancario sull’orlo del fallimento è un preciso indirizzo di policy: salviamo le banche perché sono il centro pulsante dell’attività economica del Paese, essendo esse stesse il centro del sistema creditizio. Se il sistema bancario fallisce, non falliscono solo i cattivissimi banchieri, ma spariscono i conti correnti, gli investimenti e la possibilità di rifinanziarsi sul mercato creditizio interno. Uno scenario da incubo, ma tant’è. Un’altra osservazione potrebbe essere: il debito pubblico è sempre ripagabile, anzi il debito pubblico potrebbe essere ripagato direttamente dalla BCE con creazione di danaro sonante. Che è esattamente quanto accadeva in Italia prima del “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro: i debiti contratti dallo Stato venivano riacquistati dalla Banca Centrale. Un sistema semplice di spendi quanto vuoi, tanto ci sono io. Il sistema della separazione tra Tesoro e Banca Centrale ha un duplice effetto: evita la spesa pubblica indiscriminata (e conseguente distorsione di un sano funzionamento del mercato) e misura la reale percezione di un Paese agli occhi degli investitori. Una terza e ultima osservazione potrebbe essere: il debito pubblico serve a ripagare il welfare, quindi è buono e giusto di per sé. Per un europeo il welfare è base fondante della società contemporanea, quindi sì: il welfare è buono e giusto di per sé. Ma se ci fermassimo a pensare un momento, ci accorgeremmo che il welfare non può essere un banchetto all included perché il conto, prima o poi, arriva sempre. E come i grandi debitori insegnano, è meglio essere morti il giorno in cui i creditori bussano alla tua porta ed aver abbandonato le umane cure e i debiti a qualcun altro. La domanda è sempre la stessa: che fare?

La politica è narrazione e le parole sono importanti, direbbe Moretti. Tsipras e Varoufakis hanno una loro narrazione, così come Renzi ha la sua, Hollande la sua e via dicendo. La narrazione non è solo un insieme di parole, ma un racconto trasmesso ai cittadini attraverso i media: cambiare narrazione in corsa, non essere coerenti, non ripetere il proprio mantra e i messaggi politici su cui si è costruita la propria carriera genera disaffezione dell’elettorato, abbandono, difficoltà nel processo di policy making (dialogo tra potere legislativo ed esecutivo), così come incomprensioni diplomatiche. Prendiamo il dialogo greco-tedesco e ribaltiamo la vicenda: il Primo Ministro di un Paese da 80 milioni di persone (la Germania in questo caso) si vede arrivare il nuovo capo del Governo del Paese europeo con la struttura economica più debole del continente che dice: “Cancelleremo i nostri debiti” e poi “Restituiteci i danni di guerra” (che considero una richiesta non solo ridicola, ma offensiva) e poi “Chiederemo aiuti a Russia e Cina”. Okay, immaginiamo questo Primo Ministro: deve rispondere a 80 milioni di persone, ha i suoi problemi interni, i suoi dibattiti da sostenere, le richieste, i suoi questuanti e gli scioperi da gestire; come potrà, mi chiedo, accontentare immediatamente il collega greco e allo stesso tempo restare garante del governo e della pace sociale interna? È naturale che il rapporto diplomatico venga meno: se non si mettono carte sul tavolo non si può giocare. E Tsipras non sta giocando ma cercando di ribaltare il tavolo. Il messaggio tsipriano è totalizzante: la Grecia non ce la fa? Non ce la farà neanche l’Europa! L’Europa non salva la Grecia? L’Europa è il male e va abolita! Sono solo ipotesi, ma la domanda rimane: qual è la strategia di Tsipras? Generare tensione interna tra i maggiori Paesi (Francia, Germania e Italia) per cambiare indiriSchermata 2015-03-21 alle 16.27.40zzo di policy? Renzi gli ha concesso una pacca sulle spalle e una cravatta à la mode, ma poco altro. Hollande? Il buon François si giocherà davvero la riacquistata (e comunque fragile) credibilità politica per aiutare un Primo Ministro che non intende sottostare a nessun accordo sottoscritto? Sono un democratico e sostengo che ogni popolo ha diritto a scegliersi il suo destino, ma proprio perché sono un democratico ritengo che il compromesso e il dialogo possano aver luogo solo laddove si offre qualcosa sul tavolo, che siano concessioni, ricchezze, risorse, patti o promesse. Venir meno a un patto non apre le porte a un accordo successivo, così come la narrazione aggressiva non genera condiscendenza, né fa cedere un altro Paese. Apriamo gli occhi: Tsipras non è la soluzione, checché ne dicano i salotti della gauche europea, ma è un problema molto grave per la Grecia e una narrazione dannosa per l’intera Europa.

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Anatomia di una rapina

Gianmario Pisanu

Odio parlare in maniera autoreferenziale, ma, dalla banale esperienza di cui a breve vi dirò, cercherò di cavarne qualche spunto; magari sbagliando, come lo sventurato tacchino induttivista di Russell. I fatti, dunque.

“A carico di ignoti. In data 08/03/2015, alle ore 00:30, passeggiavo in Via X angolo Z, quand’ecco due non identificati sopravvenire…coltelli alla gola…passante si apprestava a chiamare il 112…i summenzionati scappano…il suddetto imperterrito li insegue…spray al peperoncino…pugno… i malviventi disperdono le tracce…polizia…ambulanza…Letto, confermato e sottoscritto”

Non c’è molto altro da aggiungere all’ampolloso verbale della questura (da recitare possibilmente con marcata cadenza meridionale), se non qualche nota a margine: spunti esistenziali e, per non scadere nel ridicolo, riflessioni a sfondo politico.

Nota 1: Sull’aderenza dei fatti alla Realtà

Leggendo il verbale, ho come l’impressione di assistere a un altro film. Non che lo zelante servitore dello stato abbia inventato di sana pianta, anzi. Perlomeno, non alla maniera dei pubblicisti di un oscuro sito web che, virgolettando, mi attribuiscono il malizioso dettaglio sulla nazionalità straniera dei malviventi (Nota 1b: Timeo giornalisti et dona ferentes). No, il problema è un altro. Tutto sembra così sequenziale, letto dal di fuori: un’aggressione, la consegna degli effetti personali, minacce, insulti, quindi un moto d’orgoglio donchisciottesco e via con l’ambulanza, i pianti, il coraggio che si squaglia come neve al sole. Niente di tutto ciò. Non sono coraggioso, non sono nemmeno scemo: semplicemente, gli eventi mi hanno trasportato. La prima reazione è forse quella più vera: coltello alla gola, consegno ossequioso tutto ciò che ho, frugandomi tra i capelli per vedere se dimentico qualcosa. Ma ecco che, dal momento in cui i due fuggono, parte una sarabanda di flash dal sapore felliniano: niente di logico, o meglio niente di concreto, a parte l’indifferenza dei passanti all’ingresso della metro. Li scuso, loro agivano razionalmente, io viaggiavo su un piano diverso: l’adrenalina fa di questi effetti. Strano cervello, il nostro. Non s’accorge dei pugni, tutto preso com’è dal pericolo, ma accusa spesso dolori inesistenti.

Sembra la solita ode alle paniche virtù dell’idealismo individualista, stile “Attimo fuggente”. E’ invece un monito contro la (falsa) oggettività dei fatti che, come Nietzsche notava, “mancano”, e una conferma della loro parziale incomunicabilità, che anche adesso sento riverberarsi da queste righe.

Nota 2: Sulle Invasioni Barbariche, e di come il Buon Senso salverà (?) il mondo

Ho sempre detestato i buonisti stile “sinistra al caviale”, ma sono pur sempre europeo, e un europeo di quelli che leggono, il cui punto di vista non sarà mai quello di un repubblicano del Missouri né quello dell’agricoltore francese sussidiato e lepenista.

Il mio pantheon include tra gli altri anche Dostoevskij, ex galeotto graziato in punto di morte che misurava la civiltà di un Paese dallo stato delle sue prigioni; Hugo e la sua Préface de Cromwell, dove si proponeva d’”illuminare” i delinquenti con buone letture; Voltaire, Beccaria e il pensiero dei lumi in generale. Sono affezionato all’Europa, al suo welfare state, al suo senso estetico. Lo so, ci sono mille europe, ma percepisco, miraggio o meno, un minimo comun denominatore.

Perché queste premesse? Lo ammetto: tutta la mia ammirazione per le carceri svedesi, massima espressione di quest’idea di Civiltà europea, con le loro sale fitness e i corsi di musica per accompagnare il detenuto nel percorso riabilitativo, ha vacillato di fronte a quel “T’ammazzo” pronunciato da un tamarro dei sobborghi milanesi.

Mi chiedo, come l’Adriano della Yourcenar sul finire della vita, se la Civiltà, da noi intesa come portato di un percorso verso la pace e la tolleranza, non contenga in sé i germi della propria crisi. Crolla l’assistenzialismo europeo sotto il peso dei debiti pubblici (la nuova triade impossibile 7-25-50%: popolazione mondiale – PIL prodotto – welfare), si scioglie l’assai kitsch girotondo UE anni ‘90, viene a galla la contraddizione del nostro irenismo antiamericano sotto lo scudo americano (che non c’è più), l’accoglienza è spesso confusa con la Soumission, per dirla con Houellebecq. Di fronte a questo cupio dissolvi i “barbari” confondono la ragione con la forza e sogghignano delle nostre disgrazie, come quegli astemi noiosi che amano puntigliare sul vizio dell’alcool al funerale dell’amico viveur. Sottinteso: ve la siete goduta la Dolce Vita, dal Martini alla sanità pubblica inclusa, e tutte quelle fumisterie su democrazia e balle varie: ora pagate. I tedeschi la chiamano Schadenfreude, letteralmente “goduria per le disgrazie altrui”, e forse, al momento, sono gli unici nella vecchia e opulenta Europa a esserne risparmiati, non solo per ragioni meramente economiche.

Ma fino a che punto reagire senza abiurare le nostre radici, la nostra narrazione? Tante cose si potrebbero dire, ma stiamo alla mia rapina, vero pretesto di quest’articolo e buon compendio di tutto quanto è stato fin cui detto.

Nel paese degli evasori, della Trattativa, delle Agende Rosse e via dicendo, la Microcriminalità è stata a lungo vista come un finto problema, o peggio: come uno slogan di destra. Dimenticando, come ammoniva Chesterton, che la Chiesa regge da duemila anni proprio perché portatrice delle pulsioni più umane. Ciò significa forse che dovremmo tornare all’Inquisizione o castrare gli stalker come capretti da latte? No, ma nemmeno accettare un sistema in balia di astrazioni che, proprio in quanto tali, sono inumane. E’ un elogio del Buon Senso, virtù declamata dal Codice Civile, e pazienza se, gettata così su due righe, qualcuno la potrà scambiare per una lode piccolo borghese di sapore sordiniano. Interpretatela bene, in fin dei conti è solo questione di buon senso…

Post-Scriptum: Nuove dal Commissariato. Progetti per l’invasione della Polonia

Mercoledì 11/03/2015, h 21:30: Il trova Iphone manda un segnale di vita (insperato): mi trovo a Cernusco sul Naviglio, in Via X all’indirizzo Z. Sorrido ma non troppo, conosco i miei polli. Mi sveglio, chiamo il Commissariato, capisco in un baleno che il povero melafonino è ormai in un altro mondo, forse peggiore: “Mmh, trovato? Ah sì…E’ che devo accompagnare mia figlia dal dentista…Uff, vabbè passi…”

E fu cosi che GMP, come Woody Allen sulle note di Wagner, sentì l’irrefrenabile impulso di invadere la Polonia, da convinto europeista che era

 

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Parola di Varoufakis

Alberto Grillo

Sono giorni di incertezza riguardo alla trattativa tra la Troika e il nuovo governo greco. Ma a breve, credo, una soluzione si troverà. Secondo la quale la Grecia continuerà a far parte dell’unione monetaria e il buon Tsipras, dopo aver fatto comprensibilmente la voce grossa all’inizio, strapperà qualche minima concessione da poter sbandierare ai suoi elettori. Quale concessione è difficile da dire: lui insiste su una parziale cancellazione del debito ma sa bene di non avere il coltello dalla parte del manico. Se ci riuscisse sarebbe sicuramente una grande vittoria, dato che già le scadenze sono lunghissime e i tassi di interesse molto bassi.

A conferma di una probabile soluzione positiva possiamo rileggere un post del 2012 del blog di un noto economista greco, che giustificava il suo appoggio a Syriza con le seguenti parole:

“Dovremmo essere preoccupati dall’ultra-sinistra di Syriza? La mia risposta è un categorico no. Vi raccomando di non leggere il loro manifesto. Non vale neanche la carta sulla quale è scritto. Sebbene ricco di buone intenzioni, manca di dettagli ed è pieno di promesse che non possono essere e non saranno mantenute (la più grande è che l’austerità sarà cancellata); un’accozzaglia di politiche irrilevanti. Ignoratelo. Syriza è dovuto passare, in poche settimane, dall’essere una piccola frangia che lottava per entrare in parlamento all’essere un partito maggioritario che potrebbe dover formare un governo fra qualche settimana. E’ un work-in-progress, e così è anche il suo non invitante manifesto.

No, il motivo per cui Syriza è una scommessa sicura è triplice. Primo, perché è probabilmente l’unico partito che l’ha capito: che ha capito che la Grecia deve restare nell’Eurozona e che l’Eurozona non sopravvivrà a meno che qualcuno non obblighi l’Europa a fermare immediatamente l’austerità competitiva. Secondo, perché la piccola squadra di political economists che negozierà per conto di Syriza è composta da persone brave e moderate, che comprendono la difficile realtà che la Grecia e l’Eurozona stanno affrontando. Terzo, perché in ogni caso Syriza non andrà al governo da solo.”

Sapete di chi sono queste parole? Di Yanis Varoufakis, che nel frattempo è divenuto ministro delle finanze del governo Tsipras!

Il neoministro non può aver cambiato idea. Diamogli solo il tempo di realizzare pienamente che ora è lui il responsabile del programma economico di Syriza, in cui le principali fonti di recupero di risorse sono la conciliazione sugli arretrati fiscali e la lotta all’evasione, ed è a lui che spetta gestire le casse dello stato e pagare stipendi e pensioni. Aggiungiamoci poi le parole dello stesso Tsipras –“La storia dell’Europa è una storia di disaccordi ma, alla fine, di compromessi”, ha detto recentemente- e la consapevolezza che un accordo conviene anche all’Europa, per non alimentare ulteriormente la spinta dei movimenti anti o diversamente europeisti negli altri paesi, e capiremo che rinunciare ad un compromesso sarebbe un azzardo folle, contrario a ciò che pensano tutti gli attori coinvolti. Cioè che la Grecia debba restare nell’Eurozona, parola di Varoufakis.

P.s. Il post di Varoufakis l’ho scoperto grazie alla lettura dell’interessantissimo blog di Gianni Quattromari, giornalista francese di Liberation.

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Il tramonto dell’Europa?

Alessio Mazzucco

Nel film “L’attimo fuggente”, il compianto Robin Williams, ovvero Professor Keating, seguendo il copione dell’analisi letteraria tradizionale, disegna davanti a una classe di alunni ammutoliti due assi cartesiani da cui è possibile stabilire la grandezza di una poesia: da una parte la perfezione (asse x), dall’altra l’importanza (asse y); secondo la famigerata analisi cartesiana, l’area della poesia rappresenta la sua grandezza, facilmente paragonabile a un’altra poesia. Il Professor Keating ordina ai suoi studenti di stracciare quelle pagine del libro. Giustamente.

Ma presa la politica, l’arte del possibile, la non-scienza sociale, siamo in grado di misurare la grandezza di un paese attraverso un’analisi cartesiana? Faciliterebbe molto il compito del politico. Immaginiamo dunque di prendere un asse x che rappresenti la prosperità economica e l’asse y l’importanza geopolitica: l’area che andiamo a disegnare è una buona rappresentazione della grandezza e l’importanza di un paese?

L’Europa è affetta da molti problemi, molto diversi fra loro. Uno di questi è il considerarla piena di problemi. Non è facile inseguire un sogno se il sogno fa acqua da tutte le parti: così è un progetto, un amore o il connubio di 28 stati profondamente diversi di cui 19 hanno una moneta unica, una sola politica monetaria e 19 politiche fiscali diverse. Un rompicapo affascinante. Se a questo aggiungiamo una crisi economica che non ha precedenti negli ultimi ottant’anni e una crisi sociale e culturale (per lo meno in Italia) dovuto a un inarrestabile analfabetismo di ritorno, il rompicapo diventa un nodo gordiano. Per definizione, irrisolvibile. E no: in Europa un Alessandro Magno ancora non si vede.

Mettiamo da parte polemiche e le politiche, le idee e le critiche e focalizziamo l’attenzione su due aspetti: l’asse x e l’asse y. Economia e geopolitica vanno a braccetto: nessun impero della storia può reggere le maree della mutevolezza umana se non sostenuto da una solida struttura economica. Così è stato l’Impero Romano, Bizantino, Mongolo, Cinese, gli Imperi del Novecento e l’Impero Americano, ora florido dopo otto lunghi anni di crisi, ma fortemente ridimensionato (o auto-ridimensionato) nel suo peso geopolitico.

Schermata 2015-01-25 alle 19.05.48L’Europa, la nostra cara, bella Europa, è a un passo dalla fine della sua non breve storia. Prendiamo una mappa e osserviamone i confini: a Est una catena di stati e staterelli ex-sovietici formano un cuscinetto politico tra la Russia e l’Europa Occidentale; seguendo questo ipotetico confine incontriamo la punta settentrionale della Norvegia, la Finlandia, le Repubbliche Baltiche e poi giù giù fino all’Ucraina, lacerata dal conflitto di cui sappiamo poco, pensiamo meno e difficilmente risolveremo a breve. L’Ucraina è il primo fronte caldo tra Europa e “resto del mondo”, in questo caso la Russia. Scendiamo ancora: la Turchia. Dopo anni di sforzi per essere accettata quale “Paese europeo”, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il “Sultano” come qualche romantico appassionato di Storia lo ha già definito, ha rivolto lo sguardo altrove e si è accorta (sorpresa!) che chi fa da sé fa per 28 (nel caso europeo), potendosi muovere liberamente tra equilibrismi e delicati giochi di strategia politica tra Siria, ISIS, curdi e l’inferno mediorientale. Superiamo per un momento il Medio-Oriente, Israele, Egitto e approdiamo in Libia. L’oramai ex-stato travolto da una tragica guerra civile ha creato un buco nero di dimensioni solamente minori rispetto a quello siriano: meno interessante (apparentemente) e più locale, la Libia è il terzo conflitto (dopo Ucraina e Siria) a mostrare la debolezza, l’apatia e la divisione geopolitica europea. Mancanza di unità? Macché: qui c’è una mancanza di strategia. Se la Francia (complice gli USA) ha aiutato a destabilizzare la regione abbandonandola al suo destino e lasciando la diplomazia italiana sul campo a ricucire il disastro, il resto d’Europa ancora non si sa che pensi, né come intenda muoversi. L’attenzione è rivolta all’Ucraina e alla Siria, il confine meridionale è lasciato agli italiani. Muoviamoci ancora lungo la mappa, seguiamo le dune sabbiose del Sahara e approdiamo nel Mali, dove la Francia hollandiana ha dispiegato le sue truppe: ecco il quarto fronte, l’Africa Sub-Sahariana. Quattro fronti e una sola Mogherini: lo scenario non ispira fiducia. L’Europa ha una diplomazia unitaria rappresentata dalla Miss Pesc fortemente voluta dal Governo Renzi e avversata dai paesi est-europei, ma non ha un esercito comune, ha 28 diplomazie concorrenti e 28 strategie diverse, 28 Governi e 28 interessi divergenti (o, nella peggiore delle ipotesi, contrastanti). In questo scenario da brivido, l’Europa è inesorabilmente attratta dal buco nero siriano, un’anomalia gravitazionale tanto forte da trascinare con sé chiunque la sfiori.

Cosa pensa l’Europa di se stessa? Inesorabilmente vittima del complesso del fratello minore rispetto agli Stati Uniti, riuscirà a tracciare una strategia comune e rispondere alla grande domanda di questi tragici giorni: qual è il suo posto in un mondo in cambiamento? I comunicati stampa non ci salveranno, le discussioni sulla flessibilità dello 0 virgola qualcosa rispetto ai parametri europei neanche. Una ripresa economica? Forse. Unità politica? Magari. C’è chi pensa che solo un ritorno agli stati nazionali possa risollevare le sorti dei popoli europei. Io considero gli stati nazionali l’origine del problema: l’unico stato “nazionale” che riconosco è l’Europa, un continente federale, diviso in macro-regioni autonome, un Parlamento riconosciuto a Bruxelles e un Governo eletto dai cittadini d’Europa, un solo esercito e una sola diplomazia, una sola politica fiscale e una sola moneta. Ci salverà la creazione di un mercato competitivo e l’integrazione delle reti energetiche e di trasporto, ci salverà l’apertura commerciale e l’investimento nel capitale umano europeo (che significa sì erasmus e grandi feste, ma anche un sistema universitario interconnesso, ricerca, sviluppo di modelli accademici e scolastici vincenti).

Post Scriptum: gli exit poll greci danno Syriza in testa tra il 35% e il 39%, una vittoria netta ma non schiacciante, e richiederà (probabilmente) un’alleanza con un partito minore (che non sarà certo il PKK comunista che già ha definito le proposte di Alexis Tsipras troppo borghesi). Sono curioso per diversi motivi, primo fra tutti vedere che farà Tsipras una volta conquistato il potere in Grecia. Si accoderà a Renzi per chiedere più flessibilità puntando su profonde riforme strutturali interne? Dirà no al pagamento del debito? Uscirà dall’euro? Quello che per ora non chiamerei ancora fronte interno sta prendendo lentamente forma: Tsipras in Grecia, Podemos in Spagna, l’euroscetticismo montante in UK (a breve le elezioni). La prima mossa è stata di Mario Draghi con il Quantitative Easing (22 gennaio), la prossima sarà dei greci.

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Novecento

Alessio Mazzucco

Quando Alessandro Baricco scriveva il monologo Novecento, conosciuto ai più come La leggenda del pianista sull’Oceano, non credo pensasse di sfornare un capolavoro da milioni di copie vendute. Così come Eric Hobsbawn probabilmente non credeva (o forse sì, chissà) di dichiarare la fine della storia – Dio è morto! – scrivendo il Secolo Breve. Perché parlo dei due autori? Perché non sapevo come introdurre il pezzo, così ho preso le due citazioni più pop che toccassero l’argomento 900. Che poi sia un secolo o un pianista sognante nel mezzo dell’Oceano poco importa. Novecento è la definizione della Tragedia, in senso biblico forse, secolo di masse umane in movimento, guerre e massacri, ma anche sviluppo, prosperità, il secolo del dominio della civiltà occidentale sulla terra. Non male. Ed è finito.

C’è chi ha visto finire il Novecento nel 1989 con il crollo del Muro, chi pochi anni dopo con la fine dell’Unione Sovietica, chi ha visto nell’11 settembre 2001 la fine della storia occidentale. Io l’ho visto pochi giorni fa nella distensione tra Cuba e Usa. Retorica a parte, il Novecento è definitivamente archiviato.

Chi come me ha amato Guevara con tutto l’idealismo e la voglia di rivoltare, rivoluzionare, cambiare, ha visto un’epoca spegnersi. Ora Guevara sarà solo un ribelle da T-shirt come tanti, Fidel, il barbudos col sigaro che è sbarcato con un’ottantina di uomini sulle coste di Cuba per cambiare la storia dell’isola, sarà solo una cartolina sbiancata del passato. Quando Raul Castro andrà negli States e stringerà la mano a Obama, un capitolo sarà definitivamente chiuso.

E intanto pensavo a uno dei film più belli che siano mai stati girati, Le invasioni barbariche. All’apice della crisi del modello occidentale, quando il cambiamento sistemico della produzione, del commercio, del rapporto tra capitale e lavoro, quando le tensioni geopolitiche di un mondo che non ha più spazio si acuiscono e nuove superpotenze emergono mettendo sotto scacco le vecchie, stanche, vestigia occidentali, un breve estratto del film può aiutarci a capire chi siamo, o cosa siamo diventati: tutto il contrario di tutto. Intellettuali, intellettualoidi, pensatori, figli del ’68: tutto questo finirà, sta già finendo, e le nuove forme di espressione emergenti, i nuovi cittadini del mondo, le nuove strutture del potere stanno scalzando tutto quello che è stato.

John Micklethwait e Adrian Wooldridge sono, rispettivamente, il direttore e l’editorialista di Schumpeter del settimanale The Economist. Molto british, molto acuti, molto colti. E il libro che hanno sfornato, The Fourth Revolution, è un piccolo capolavoro di scienza politica. Ben scritto, rapido e godibile, il libro ruota intorno a una semplice domanda: quale modello di Stato potrà permettersi l’Occidente davanti alle sfide globali? Domanda mica da poco. Lo Stato novecentesco, quello pesante, ingombrante, rigido, sicuramente capace (per lo meno nel passato) di creare un sistema di welfare ancora oggi invidiato da tutto il mondo, è vecchio e decadente. Mafia Capitale? Indagini sull’Expo? I grillini? Quelli sono solo sintomi. La Camusso in piazza, Landini nelle fabbriche con gli “onesti” (cit), il Fassina furente sono altri sintomi. C‘è un Novecento che ancora grida, si arraffa, si muove e si stanca nel cercare la propria permanenza nella Storia; dall’altra parte c’è un mondo che va avanti. E quel mondo non è Renzi eh, badate bene, quel mondo è ben al di là delle Alpi, si chiama modernità, progresso e cambiamento, e dalla Pianura Padana in giù di questi venti roboanti avvertiamo solo le brezzoline che talvolta, per nostra fortuna, filtrano.

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Christopher Nolan come Jules Verne

Alessio Mazzucco

Chi ha visto Interstellar sarà rimasto deluso. Si aspettava di più: probabile. Ha trovato i dialoghi stucchevoli: certamente. 2001: Odissea nello spazio è insuperabile: forse. L’unica paragone che mi è venuto in mente è Jules Verne, quel genio positivista francese che a metà Ottocento ragionava sul come sparare (chi ha letto il libro lo sa: letteralmente sparare) gli uomini nello spazio per raggiungere la luna, quella massa che ha illuminato le notti di poeti e sonnambuli, e a lui perdoniamo tutto: ingenuità, ignoranza, arretratezza scientifica del pensiero. Gli perdoniamo tutto perché ha stimolato pensieri e fantasie, ha spalancato con la lettura l’infinità dello spazio, i confini superabili del mondo, la grandezza del pensiero umano davanti alle sfide.

Questo è Interstellar. Non un trattato scientifico, non un capolavoro, anche un po’ banale nel finale. Ma Interstellar ha rivolto nuovamente lo sguardo all’oltre, alla curiosità umana, all’avventura pionieristica, alla necessità intramontabile dell’uomo di andare oltre. Quei pochi che riescono a uscire dalla caverna dove solo le ombre delle idee si riflettono sulle mura a cui si resta incatenati a vita vedono la luce dell’oltre: e quei pochi tornano per raccontarlo. Perché la bellezza non è nulla se non condivisa, nel viaggio e nella scoperta. E la mente umana può molto più di quello che crede di se stessa.

Guardo le crepe del nostro mondo, le sfaldature sociali e gli smottamenti geopolitici a cui siamo costretti nostro malgrado, e mi domando: davvero siamo così piccoli? Nel nuovo medioevo dove il pensiero scientifico è cacciato dalla politica, dall’economia, dalla vita di tutti i giorni (“I vaccini fanno male!”, “La politica, non i tecnici, deve decidere!”, “La gggente ha fame!”) non c’è forse più posto per il pensiero strutturato, la logica formale, la conoscenza coltivata e curata in ogni suo più piccolo aspetto? Davvero ci arrendiamo così al nulla?

Forse abbiamo bisogno di Christopher Nolan, perché ci dice di guardare all’Oltre con sguardo colmo di curiosità e la mente affamata di cose nuove, e lo fa con un linguaggio che possa raggiungere ogni angolo della società, con un film godibile, un blockbuster commerciale che non rimanga sepolto sotto la polvere smossa del proiettore di un piccolo cinema sconosciuto.  Forse questo è solo un post casuale che segue la visione del film, o forse no.

Riprendiamoci la conoscenza, la tecnica, il rispetto per lo studio e la cultura, la logica e la capacità di espressione. Non arrendiamoci, non bruciamo le nostre biblioteche: il mondo cambia, e io non voglio di certo restare in un angolo a guardarlo cambiare impotente.

E comunque Hans Zimmer resta il migliore. 

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Sbagliate, mancate, peccate, ma siate giusti

Alessio Mazzucco

Il crollo dei tesseramenti PD è uno degli argomenti meno interessanti del nostro mediocre dibattito politico. Ma è necessario. O, almeno, è necessario se diretto al vero nocciolo della questione: la democrazia ai tempi del cambiamento. Perché di questo si tratta: il PD resta l’ultimo partito esistente nel Paese (disgraziato quel Paese che ha bisogno di partiti) e il crollo dei tesseramenti mostra non tanto il disamoramento o la critica al Governo, quando l’unica vera verità, da poco entrata nell’opinione pubblica. I partiti possono essere inutili. E dannosi. E troppo spesso squallide fogne dove le cariatidi della mediocrità formano le loro cisti, i propri posticini al sole, le poltroncine e i poteri piccoli, o deboli in questi tempi di poteri forti.

La nostra agile e moderna Costituzione fonda la democrazia italiana sui partiti. Era il 1948. Siamo nel 2014. Cos’è successo? Alla metà del secondo decennio del XXI secolo qualche domanda non solo è d’obbligo, ma utile. Cos’è la democrazia? Come funziona una democrazia? E vi sembreranno domanda campate per aria, stupide, inutili, un onanismo intellettuale fine a se stesso (piacevole e solitario in quanto tale), ma sono fondamentali.

Vi racconto un aneddoto. ieri sera ero in compagnia di un gruppo di russi, e da un breve confronto politico la domanda è venuta d’obbligo: cos’è, per voi europei, la democrazia? È libertà, ho risposto (maledette frasi fatte), ma non libertà fine a se stessa, di parola (ultimamente di sproloquio), di pensiero e stampa, non solo, ma libertà di portare avanti un’idea politica se le necessità sentite non trovano risposta e supporto nel sistema politico. Questa è la libertà democratica: la possibilità, data a tutti, di partecipare al dibattito se non ci si sente rappresentati, e lottare per la propria idea per cambiare o influenzare il sistema. La libertà democratica è libertà di lobby, d’influenza e pressione. È libertà d’associazione e costituzione di gruppi d’interesse senza essere messi a tacere o, peggio, essere assorbiti da un gruppo d’interesse (o partito) maggiore: la democrazia può essere calpestata tanto da tiranni quanto da rappresentanti eletti se non si nutre a sufficienza nelle coscienze dei cittadini.

Non dimentichiamoci quanto siamo fortunati, non dimentichiamolo mai. Ma nel non dimenticare, non lasciamoci intrappolare dall’idea che vecchio è bello, stabile è sicuro, la storia è maestra. Non è così. Il crollo dei tesseramenti ha lanciato il messaggio inequivocabile: non vi vogliamo. O meglio: non vi vogliamo così. E questo messaggio, a quanto pare difficile da elaborare e assorbire, è passato inosservato quando il 25% dei voti è andato a quella specie di inutile circo del Movimento 5 Stelle, ma non passerà inosservato ora che colpirà il vero cuore dei partiti: il portafogli, il serbatoio inalterabile di voti e giovani e vecchi attivisti da sfruttare per mantenere poltrone e poteri, onori e privilegi. 

Un giorno, forse, ci sveglieremo in un sistema democratico in cui la falsità ipocrita del semicerchio post-Rivoluzione francese sparirà, liberandoci del manicheismo stantio della contrapposizione destra-sinistra (Civati docet), e magari le camere saranno sostituite da parlamenti circolari in cui prenderanno posizione deputati eletti nei territori senza necessariamente essere partecipi di un movimento/partito che superi una soglia percentuale arbitraria. Un giorno, forse, ci sveglieremo che alleanza, intese e collaborazioni varieranno a seconda dei temi, e la contrapposizione non sarà a priori tra A e -A (dove A è diverso o contrario a -A), ma tra cosa pensano B, C e D sulla proposta di A.

Senza partiti non ci sarà cultura politica! sento già gridare i sacerdoti del Novecento. L’idea che il partito, così come la figura dell’intellettuale, abbia in mano la torcia con cui illuminare le coscienze dei popoli è finita, e sarà solo la spontaneità dei movimenti e dell’associazionismo sociale a creare cultura politica, rappresentanza e idee. Chi vuole unirsi a partito o associazione faccia pure, ma non obblighi il prossimo a pensarla così. Non obbligateci a pensare che dopo i partiti ci sia il nulla, perché dopo i partiti ci sarà sempre la democrazia, solo diversa, cambiata, mutata. Più difficile, certo, più instabile, forse, ma chi ha paura del cambiamento e del nuovo non parli in mio nome, né si sforzi di rappresentarmi: nel nuovo mondo sarà l’audacia e la fantasia e la creatività a creare un nuovo tipo di democrazia, senza che il platonismo dei partiti si sforzi di bloccare le trasformazioni sociali inseguendo l’idea che solo un’aristocrazia illuminata possa condurre i cittadini verso il sol dell’avvenire. Lasciateci fare, lasciateci provare, lasciateci sbagliare (“Sbagliate, mancate, peccate, ma siate giusti” scriveva Hugo). Non venite a chiederci un voto o una tessera quando ne avete bisogno per dimenticarci poi nel buio della non-rappresentatività quando giocate a fare la politica. Non abbiamo bisogno di partiti, abbiamo bisogno di lobby che discutano e supportino i nostri bisogni. Non abbiamo bisogno d’idee calate dall’alto, ma di uomini e donne capaci di sintetizzarne alcune e portarle nelle stanze dei bottoni. 

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Lasciate che i privati vengano a me

Alessio Mazzucco

Pochi argomenti sono trattati più superficialmente, semplicemente, ideologicamente del rapporto tra settore pubblico e privato. La prima spiegazione che viene è l’assoluta inettitudine della nostra classe dirigente e intellettuale a dirimerne dettagli e sottigliezze, piccolezze e distinguo che diano vita a una consapevolezza non solo maggiore in senso lato, ma migliore di qualità. Forse è semplice volontà lasciare tutto annebbiato, oscuro, silente, così che, quando arriva il tempo delle nomine, delle elezioni e dei favori, si ha sempre spazio di manovra tra clientelismi, poltroncine, meri posti di lavoro e serbatoi di voti. 

Dunque, dipaniamo la nebbia e facciamo chiarezza. Lasciate che vi esponga qualche piccolo esempio goloso, cose così, trovate a caso o ben presenti nel dibattito attuale. E un esempio trionfa su tutti: la querelle su Galleria Vittorio, celeberrimo palazzo ai piedi del Duomo e sede di boutique moda/lusso, Ricordi e Feltrinelli. Bene, che è accaduto? È tutto spiegato qui: LINK. Ma vi faccio un breve riassunto. Come racconta ItaliaOggi, 

la fondazione Altagamma, che raggruppa i big della moda, del design e dell’enogastronomia, nel 2012, con la presidenza di Santo Versace, aveva prospettato al sindaco Giuliano Pisapia, un affare con cui rimettere in sesto le casse comunali. Si trattava di conferire la proprietà della Galleria in un fondo, mantenendone il 51% in mani municipali, ma dando la gestione degli immobili alle griffe, che ne avrebbero fatto un enorme vetrina superlusso. Il municipio ci avrebbe guadagnato 400 milioni, vendendo cioè il 49%, e il restauro completo di tutto il grandissimo edificio che, com’è noto, connette Piazza Duomo alla Piazza dello stesso Comune, su cui si affaccia la Scala. Pisapia aveva promesso di verificare ma la proposta non è approdata a niente, e neppure il rilancio, nell’ottobre scorso, di Andrea Illy, succeduto a Versace alla guida della fondazione, sembra aver sortito alcun effetto.

Ma che accade? Daniela Benelli, assessore (o assessora a dirla come la Boldrini) meneghino al Demanio dice (trionfalmente) no alle griffe e al lusso. “Troppo rappresentati in Galleria” ci fa sapere; del resto, nel quadrilatero Manzoni-Corso Venezia-Via della Spiga-Montenapoleone le griffe hanno abbastanza spazio. “Si accontentino!”. Già, perché che porti ricchezza, lavoro, turismo e tutto il circolo virtuoso che gira intorno a un polo d’attrazione come un palazzo INTERAMENTE RISTRUTTURATO e dedicato al lusso a noi non importa. Anzi, lo schifiamo anche un po’. Perché la vendoliana Bonelli è una donna di classe e cultura, e vedere le griffe Prada o Armani in Galleria un po’ le dà fastidio.

Credo che l’assessore(a) Bonelli concentri in sé l’intero discorso. Dagli al privato, malato perverso di profitto e guadagno, via dal tempio i mercanti!, da oggi solo boutique insignificanti, affitti bassi e commerci che non danneggino l’umore del popolo. 

Parliamo d’altro. Ferrovie dello Stato. Yummm. Dunque, Trenitalia è posseduto da Ferrovie dello Stato, la holding che detiene Grandi Stazioni e la rete ferroviaria italiana. Ferrovie dello Stato è posseduto al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ferrovie dello Stato possiede quindi la rete e i treni che viaggiano su quella rete; quel che si dice un monopolio. “Possiamo considerarlo monopolio naturale!” mi dirà qualcuno citando a caso parole che indicano la presenza di una risorsa tale da non permettere alcuna competizione tra privati (esempio: la Pubblica Sicurezza). E qui viene fuori tutta l’italianità nel suo clientelismo più becero e sfacciato.

Nelle recenti interviste di Michele Elia, nuovo Amministratore Delegato di FS, il buon timoniere della grande holding pubblica ci fa sapere che “separare reti e ferrovie dello stato è fuori discussione” anche privatizzando FS. Mi spiego: in questi giorni è tornato di moda il refrain della privatizzazione di una quota di FS per far cassa e pagare le varie spese correnti che lo Stato si sta accollando (sussidi, incentivi, cassa integrazione in deroga, esodati e via dicendo). Ma privatizzare non significa liberalizzare il mercato, ma di un monopolio esistente mantenere un monopolio con diversi proprietari. Avete capito la furbata? Io privatizzo, ma mantengo la rete ferroviaria nella proprietà: sedendomi in CdA con il 50% rimanente delle mie quote, sarò comunque monopolista insieme al salotto buono che mi sono creato. E i privati? S’attacchino. La concorrenza? Uno schifo. Perché ultimamente si parla tanto di NTV, preso tra debiti e perdite e braccato in ogni modo da una FS allergica al mercato; ma molti dimenticano Arenaways, una società di trasporto ferroviario a capitale privato, durata un anno solamente (2010 – 2011) perché sfidare il Moloch pubblico è grave danno e grande peccato.

Questi sono solo esempi di come la nostra magnifica classe dirigente, per auto-alimentarsi elettoralmente, sfrutta monopoli di ogni genere per tenere strette le maglie del potere italiano, allergica com’è a una concorrenza che spazzerebbe brutture e storture, inefficienza e clientelismo. Il dibattito tra pubblico e privato è inutile, e non perché sia inutile di per sé, ma perché inutile gettarlo nei meandri del manicheismo pubblico-difensore dei diritti e privato-becero animale da legge della giungla. Ci sono bisogni, e i bisogni vanno soddisfatti nel miglior modo e con la maggiore efficienza. E laddove alcuni bisogni non sono contemplati, né profittevoli abbastanza per attrarre l’investimento privato (esempio classico: un collegamento ferroviario per cittadine piccole e periferiche) che lo Stato intervenga con soldi suoi, ma che sia solo in quel caso e non onnicomprensivo.  

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Dio è morto, Marx è morto e Renzi sta benone

Gianmario Pisanu

Dal Vangelo secondo Scalfari (Repubblica, 14/09/2014): Renzi è un post-ideologo d’accatto e, al netto della gobba e dei rapporti coi Bontade, è una copia sputata di Andreotti, il cinico per antonomasia (lode a te o Scalfari). Dopo una filippica stile o tempora o mores, l’accusa assume contorni più concreti: Renzi ha epurato gli ex PCI-PDS-DS, lasciando il Partito (che per Gramsci assurgeva a Principe machiavellico) in balia di ex margheritini e squinzie da 4 soldi, tutti con accento fiorentino.

Posto che ciò sia vero, e a giudicare dalla composizione dei gruppi parlamentari ancora non lo è, si ripropone ancora una volta l’eterno rovello che affligge i post-berlingueriani: siamo diversi, uguali, diversi (© Moretti)? Ma soprattutto: l’Ideologia, che ci rende così diversi e così uguali al contempo, è cosa buona e giusta?

Spesso, quando non si trova risposta ai propri dubbi, è la domanda a essere sbagliata. Così, appiattendosi alle solite dicotomie di stampo manicheo (Bene-Male, Bello-Brutto, Buono-Cattivo, Onesto-Berlusconi), la sinistra ricasca nei propri vizietti e si richiude a riccio nella propria verginità, quella sì assai pop (altro che giubbotto stile Fonzie), fatta di cantanti, predicatori che razzolano male, cineasti in cerca di finanziamenti, Papa-Benigni I e via dicendo. Dopo un bagno d’umiltà (non facile per chi, alla soglia dei sessant’anni, si crede ancora meglio gioventù), bisognerebbe chiedersi, piuttosto: l’ideologia ha ancora un senso?

Per quei paradossi della storia tanto cari a Hegel, Karl Marx, padre putativo del Comunismo, considerava l’ideologia un’impostura. Trasponendo le questioni etico-politiche in termini metafisici, cristallizza i rapporti di forza produttivi in seno alla società, giustificandoli ab aeterno. Per converso, la coscienza di classe si sarebbe inevitabilmente sviluppata da presupposti tutt’altro che astratti o imposti dall’alto. Un altro grande “maestro del sospetto”, Derrida (curiosamente, e forse non a caso, anch’esso affine al mondo di sinistra), si divertiva a decostruire “giochi di parole”, apparentemente innocui, per svelarne il potenziale totalitario implicito.

Ora, come non ravvisare un’alea d’ipocrisia nelle strategie di buona parte della classe politica “progressista” degli ultimi vent’anni? Cresciuta e crogiolatisi nel “Mito della Grande Marcia”, non quella epica e tragica del Condottiero Mao, ma la rappresentazione farsesca e kitsch sbertucciata da Kundera, la Sinistra ha trastullato i propri elettori con “narrazioni” di comodo, scambiando per asettiche verità/diritti universali quelli che in realtà erano giochi di Potere. Così, che c’è di “Sinistra” in un sindacato che, giustamente, non essendo un ente caritatevole, difende gli interessi dei propri tesserati (lavoratori pubblici, pensionati), spesso a scapito del giovane disoccupato o della partita IVA? E ancora: quale “Sinistra” dietro la svendita colossale di pezzi del patrimonio pubblico italiano ai “capitani coraggiosi” col pretesto molto kitsch di un enorme girotondo europeo tutti mano nella mano al suono dell’Inno alla Gioia? Potrei proseguire coi vari bassolinismi e vendolismi, sorti come funghi all’indomani della famigerata revisione del Titolo V: clientelismi sfrenati mascherati da New Deal, tra cui l’indimenticabile “Primavera di Napoli” di fine anni ’90 (ah, la stampa italiana).

Ma la fine di quelle che Lyotard chiamava meta-narrazioni (métarecits), sottolineandone il carattere puttanesco e illusorio, ha lasciato un vuoto difficile da accettare. Il post-moderno, che al moderno si oppone in quanto rappresentazione non teleologica della Storia (scompare cioè l’identità Modernità = Progresso, tanto cara alla sinistra per l’appunto “progressista”) è più che mai realtà nel mondo dell’informazione iper-frammentata e schizofrenica: ne è la riprova la diffusione virale  del Movimento 5 Stelle via web, impensabile fino a pochi anni fa.

Sul solco della post-modernità, Renzi posa dunque da Don Chisciotte un po’ folle denudando ciò che le sacre vestali del politically correct custodivano gelosamente. Un gioco di Potere che accetta di definirsi tale e combatte altri giochi di Potere camuffati da ideologia: questa è stata l’essenza della “rottamazione”.

Intendiamoci: l’accettazione di tutto ciò non coincide con l’esaltazione della Post-Ideologia, spesso assurta a vera e propria ideologia e, dunque, anch’essa velo di Maya di interessi inconfessabili tipo confindustriali. Né l’ideologia è sempre stata necessariamente un male: la probità dei vecchi togliattiani tutti d’un pezzo nasceva da un comune sentire, altro che diversità morale antropologica e Berlinguer-ti-voglio-bene.

In questo senso, la preziosa eredità del decostruzionismo ci aiuta a uscire dal cul de sac che la contrapposizione Ideologia-Post Ideologia inevitabilmente ripropone. La Verità sta sempre nel mezzo: non in senso salomonico o benpensante di moderazione (nessuna Nuova DC  o “casinianesimo” vario), bensì di non detto. Quindi: partecipiamo  alla vita politica accettando che le nostre lenti deformanti, pure inevitabili, si  siano un po’ assottigliate, rifuggiamo ogni nostalgia verso le “magnifiche sorti e progressive” e diffidiamo dei venditori di icone. Con buona pace dell’Eugenio nazionale.

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